martedì 12 giugno 2007

On The Road...

NAZIONI D’ANIMO
(Stato eccezionale)


Ramon il taxista: Come ti chiami ?
Io: Carlo, senor
Ramon : Sei cristiano, Carlos?
Io: ehm..non saprei… credo di si
Ramon: Cattolico o evangelico?
Io: Mah, penso cattolico
Ramon: Bravo, fratello, allora sei davvero un brav’uomo.


Così è iniziato il mio soggiorno in Venezuela, il 7 dicembre 2008.
Appena atterrato, dopo aver passato una notte di scalo in giro per Parigi, non prima di aver
cambiato diversi euro sottobanco con qualche inserviente dell’Aeropuerto “Simon Bolivar” mi sono
trovato subito di fronte ad una forte componente insita nella natura delle popolazioni dell’america
latina: la l’attaccamento religioso
Il primo dialogo in questa terra per me ancora sconosciuta è stato di difficile impatto:

Ramon: il mondo è pieno di credenti ma ci sono troppe religioni
Io: E’ vero Ramon, al mondo ci sono più religioni che bambini felici….


Avevo preso il taxi per recarmi alla stazione degli autobus per prendere una corriera che in 12 ore di
viaggio(!) mi avrebbe dovuto portare a Merida, ridente cittadina sulle Ande Venezuelane (ma poi
ho scoperto che questa cittadina non ha molto da ridere…;
Non è stato facile districarmi dal radicale conservatorismo cattolico di Ramon, e per comprensibili
motivi di cautela ho dovuto tirare fuori tutta la mia retorica, anche un pò vigliaccamente.
Ovviamente mi sono scontrato subito con una situazione non facile, che mi ha colpito e mi ha dato
immediatamente diversi spunti di riflessione.

Mentre Ramon pigiava sul gas tra le sopraelevate di Caracas, lasciando spazio in lontananza al paesaggio di baracche e capanne dei sobborghi (altro che i peggiori bar..)qualcosa dentro di me non riusciva a placarsi: lungi da me fare revisionismo cattolico, però in effetti, è impossibile non
notare ripetitivamente come la religione riesca ad attecchire laddove la povertà e l’instabilità sociale la fanno da padroni. E’ triste riscontrare realmente ciò di cui si è sempre discusso solo
a parole, di come la religione sia il cibo dei poveri, di come riesca ad instillare la necessità di fede quando la realtà non concede nessuno spazio alla speranza, di come speculi promettendo un aldilà migliore quando, effettivamente, l’aldiqua non potrebbe essere peggiore. Forse sono soltanto riflessioni estemporanee e demagogiche ma lo scenario a cui mi sono trovato davanti non ha potuto fare a meno di evocare in me tali pensieri.

Ma mi sono messo l’anima momentaneamente in pace e ho continuato per la mia rotta.
Il perché io mi trovassi in Venezuela è presto detto: come un anno fa, mi sono trovato a collaborare con il CIRPS (Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile dell’Università La Sapienza) in un progetto di cooperazione internazionale sull’energia solare. In particolare, in questa missione, dovevo tenere un corso di Autocostruzione di pannelli solari-termici ad una comunità andina situata a 4000 m di altitudine.
Detta così sembra facile, e infatti lo sarebbe se non intervenisse il destino beffardo a complicare le cose (ma ammetto che devo ringraziarlo per avermi insaporito la vita più e più volte).
Prima di arrivare sul posto oggetto del nostro progetto dovevo incontrarmi con un professore che
stava ripartendo per l’Italia affinché mi aggiornasse sullo svolgimento del lavoro. Con molta
professionalità si è deciso di incontrarci l’8 dicembre su una spiaggia dei Carabi per definire i
dettagli dell’operazione.
L’autostazione di Caracas è tremenda, piena di aguzzini che vogliono appiopparti biglietti per le
destinazioni più disparate, ce n’era addirittura uno che mi ha supplicato per una buona mezz’ora per convincermi ad andare a Maracàibo (attenzione l’accento è sulla à, la canzone ci ha plagiato la
mente), io continuavo a dirgli che dovevo per forza di cosa andare da un’altra parte e lui non voleva arrendersi….. è stata una scenetta invadentemente simpatica.
Breve descrizione degli autobus: poiché la temperatura a Caracas a dicembre è di circa 40° gli
autisti guidano scalzi, si viaggia con finestrini e porte(!!) aperte e radio con musica afrocubana ad
altissimo volume. Con l’aiuto di qualche Dio degli Studenti riesco ad arrivare a destinazione
cambiando casualmente 3 autobus nel giro di 4 ore. Trovo la prima branda e buonanotte.
La mattina dopo vengo svegliato dal professore che arrivando da un viaggio di 10 ore in macchina
riesce anche a trovarmi nonostante non ci fossimo tenuti in contatto perché i cellulari italiani,
prevedibilmente, non funzionano bene in Venezuela. Andiamo al porto, chiamiamo un ragazzo che con una barchetta ci porta su un isoletta dell’atollo di Chichiriviche. Passeggiata, bagno e raccolta di noci di cocco mentre eravamo in riunione permanente e discutevamo sull’esito del progetto.

Il giorno dopo il prof. riparte per Roma e io mi metto in viaggio per Merida.
Ma al mio arrivo non trovo nessuno dei partner locali ad aspettarmi.
C’è un’altra sfaccettatura del modo di fare dei sudamericani che mi affascina e mi spaventa come
un improvviso bacio sul collo da dietro: la dilatazione dei tempi.

Il sudamericano è il testimonial supremo della filosofia LAVORARE CON LENTEZZA. Tutto
procede a rilento, lavoretti o faccende che noi italiani ci sbrigheremmo in 1 ora loro ci mettono una settimana, perché tutto va fatto con calma, appuntamenti ritardati, orari fittizi.
In sostanza nelle mie due settimane di permanenza ho fatto dei lavori che in Italia avrei completato in 3 giorni.
Però forse una parte di me si è ritrovata abbastanza comoda in questo spirito, in questa voglia di
rallentare e guardarsi attorno, di fermarsi un attimo a pensare. In Italia non mi capita spesso di
fermarmi a chiedermi il perché di quello che sto facendo, di ogni piccolo impercettibile movimento della mia vita, la motivazione che mi spinge ad eseguire ogni inutile azione : “Perché ho mangiato questo oggi? Perché ho questa maglia addosso? Verso dove sto correndo?”.

Vi confesso che in Venezuela ho ritrovato il gusto di lasciarmi pensare, rilassarmi, gabbare lo stress senza incappare nella noia, per riscoprire che in fondo quello che conta non è il punto di arrivo ma il viaggio stesso; e allora preferisco viaggiare a 10 km all’ora e godermi il panorama piuttosto che accelerare per arrivare prima senza aver rivolto mai lo sguardo fuori.

E questa volta devo dire che addirittura ho tirato fuori la testa dal finestrino (e quasi avrei preferito cadere…). Ma ho imparato tante cose. Ho capito che lo sviluppo deve essere visto come un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani e quindi deve avere delle caratteristiche precise: tendere alla soddisfazione dei bisogni primari, ossia garantire a ciascun individuo nutrizione, casa, salute, ma anche libertà, identità e giustizia. Essere endogeno, basato cioè sull’autosufficienza, sul “contare sulle proprie forze”, essere in armonia con la natura, cioè sostenibile; ed infine essere partecipato attraverso il coinvolgimento della società civile.

In Venezuela la divaricazione sociale non è, come in altri paesi del Mondo, tra Nord e Sud, bensì tra centro e periferia, tra una minoranza di globalizzati e una maggioranza di esclusi. Strumenti come il denaro o la tecnologia non devono essere trattati come strumenti di potere, ma come strumenti di diritto per tutti. Questo vuol dire dare la possibilità ad ognuno di poter esprimere il proprio sé, il proprio essere persona, e per far questo gli strumenti sono indispensabili.
In Venezuela la mancata affermazione del diritto all’accesso agli strumenti rende palese la
situazione di emergenza in alcune aree.

Cavolo non devo fermarmi più a pensare…. Forse è meglio spingere sull’acceleratore….
L’anima viola il tratta di pace che avevo firmato con lei il giorno prima e ritorna a tormentarmi
Ma troppe situazioni sono surrealmente irrazionali.
Non è razionale l’abitudine di bruciare aree forestali per ricavarne, nel breve periodo, terreni
coltivabili. Non è razionale la deforestazione realizzata per ricavarne legname da ardere, cioè una fonte di energia.
Occorre imparare di nuovo l’ABC del rapporto con la natura. Per questo siamo partiti dai pannelli
solari: aule all’aperto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici
consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza
apprendiamo il respiro della libertà interiore. Un giardino, un bosco, un orto trasformano
l’abitazione in qualcosa di vivo di cui prendersi cura.


Non ho fatto in tempo a mettere piede in Venezuela che gia mi trovavo immerso nel suo fango
vitale. Tuttavia il progetto è andato a buon fine, grazie anche all’aiuto di chi mi ha preceduto, sono riuscito a costruire 2 impianti solari che forniscono acqua calda per 2 famiglie disagiate. Ho tenuto un corso sia teorico che pratico di autocostruzione a cui la comunità ha risposto in maniera eccezionale: ricordo che eravamo a casa della signora DulceMaria, una donna che abita in un paesino a 3.300m sulle Ande e che vive allevando una simpaticissima quanto aggressiva pecorella e coltivando patate e fragole. Da quelle parti l’acqua arriva direttamente dalle sorgenti montane tramite un tubo non interrato (quindi chiunque può andare li e sabotare) che attraversa tutto il versante delle montagne. Ovviamente l’acqua calda non esiste, a meno che qualche fortunato all’interno del villaggio
possieda una caldaia a legna o uno scaldabagno elettrico, ma tanto l’elettricità non c’è tutti i giorni. La sua famiglia era stata scelta come destinataria del nostro progetto, quindi abbiamo invitato tutte le persone del villaggio, adescandole con una buonissima zuppa “campesina”, abbiamo mostrato loro dei filmati sulle applicazioni dell’energia solare e poi ci siamo messi tutti insieme a lavorare come carpentieri per costruire questo pannello che alla fine è stato regalato alla famiglia della signora DulceMaria.


L'aspetto più interessante è stato la comprensione del fatto che la tecnologia non è una proprietà
delle macchine ma un prodotto della conoscenza umana. Gli effetti dell'uso delle macchine, e
a maggior ragione la capacità di creare innovazioni tecnologiche, non dipendono tanto dal capitale
fisico quanto dal capitale umano. Nel nostro caso la spinta ad effettuare una proposta autodeterminazione tecnologica è nata dall’esigenza di trovare una soluzione ambientalmente e
tecnologicamente sostenibile per migliorare le condizioni igienico-sanitarie dei beneficiari di tali interventi.
Affinché l’innovazione tecnologica si trasferisca facilmente nel bagaglio culturale del destinatario si è pensato di utilizzare l’autocostruzione in quanto strumento di libera divulgazione e condivisione verso cui una comunità è in grado di prendere direttamente coscienza.
E’ chiaro che in questo processo di “tecnologizzazione” dello sviluppo un ruolo inevitabilmente
molto importante è giocato dalla popolazione, che , attraverso diverse forme di identificazione e
organizzazione, si pone come attore principale all’interno di questo processo.
Ed è stato stupendo vedere come i partecipanti al laboratorio di autocostruzione cercassero di
imparare questa nuova tecnologia per poterla riprodurre ognuno nella propria abitazione, è stato
stupendo vedere come la loro collaborazione sia stata motivata dalla voglia di aiutarsi a vicenda.
Questo testimonia che l’uomo si incontra nel suo bisogno e che la risposta al bisogno mobilita
positivamente le persone e mette in gioco libertà e creatività.

Così ci piace.


Vogliamo operare mossi da un ideale, sia esso religioso o umanitario, che è sempre caratterizzato da una passione per l’uomo capace di far camminare assieme per lunghi tratti uomini diversi per
formazione, per cultura, per appartenenza ideologica.
Per molti studiosi una tecnologia sarebbe appropriata solo quando risolve i grandi problemi
dell’uomo, della società e dell’ambiente, quali si presentano nelle società industriali avanzate.
Questa definizione però non mi piace, in quanto la tecnologia è un mezzo, uno strumento per
raggiungere certi obiettivi, con i quali non si identifica e che non sono necessariamente quelli che si propone una società industriale avanzata. Viceversa, dobbiamo ritenere che una tecnologia sia
appropriata quando, per effetto della sua struttura e dei rapporti che riesce a stabilire con la cultura, l’ideologia, la struttura sociale del paese in cui viene adottata, dà origine a processi che si
autosostengono e riescono a far crescere le attività del sistema e la sua autonomia.
Appropriate a quale scopo? Senza dubbio a soddisfare i bisogni delle persone, senza ricorrere per
forza a strumenti di ultima generazione, ma semplicemente attraverso diverse combinazioni di
lavoro umano e attrezzature, tenendo conto della configurazione organizzativa e dell'ambiente in cui avviene l'intero processo. Una definizione che si addice anche a una radio a manovella, a un forno solare o a una tecnica di costruzione biologica. In altre parole, si tratta di far aumentare la capacità di sopravvivenza e di sviluppo della popolazione che la adotta.


Tiratina d’orecchie: c’è da dire che il concetto di appropriatezza non è necessariamente riferito a
paesi a livello di sviluppo molto basso: una tecnologia può essere appropriata anche rispetto a una popolazione altamente progredita.
Quest'alternativa non deve essere pensata solo per il “Sud del mondo” ma può essere applicata
anche alle società più pigre suggerendo di andare più adagio per adeguare il proprio ritmo di vita
all'utilizzo di energie rinnovabili, come appunto quella del sole. Un cambiamento che impone non
solo la sostituzione di tecnologie, ma una rivoluzione culturale che ci spinga a rimontare in sella
alle biciclette e a coltivare il nostro orticello famigliare.

Dopo quest’ennesima digressione non mi rimane da dire che sono tornato a casa il 23 dicembre
sano e salvo, ma devo sottolineare, egoisticamente, che dopo ogni viaggio che ho fatto o missione a cui ho partecipato chi ne è uscito maggiormente arricchito sono stato proprio io.
Ancora oggi, dopo tre mesi dalla fine di questa esperienza di viaggio la memoria è ormai affollata
da ricordi di esperienze uniche e il cuore non dimentica il sapore della terra, di questo Venezuela,
che come uno “specchio” si riflette ancora nei miei occhi, spesso troppo distratti o indaffarati, a
ricordarmi che a causa del progresso ci siamo separati dalla natura, dai suoi ritmi, colori e suoni; ma il benessere non deve trasformarsi nel taglio delle radici dell’uomo, nell’incapacità di percepire il fragile miracolo di essere vivi, ma nella riscoperta del legame che perdura da millenni tra tutti gli esseri umani.
Per questo voglio ringraziare gli abitanti di Mucuchies, Mocao, Mitivivò, Mixteque, Gavidia per
l’accoglienza datami ad addolcire l’amaro retrogusto della povertà; per aver condiviso con me la
nostalgia di un passato meno tecnologico e inquinato (anche a livello mentale e morale), dove tutto accadeva con un ritmo naturale e questo dava la possibilità all’uomo di “vedere” e di “sentire” la vita che pulsa intorno (e dentro) di noi, di vivere in armonia con la terra.
Anche quando la città (ormai frenetica) incombe con i suoi alti muri e rumori e insieme al territorio rischia di soffocare la gioia di vivere.

Sicuramente in modo inadeguato, ma sincero, con questa sorta di diario di viaggio voglio anche
esprimere un ringraziamento a chiunque abbia scelto di stare dalla parte dei poveri del mondo:
coloro con i quali tentiamo ogni giorno di condividere quello che ci è stato dato ed ai quali, lo
speriamo, possa in fin dei conti servire anche questo lavoro.

Carlo Tacconelli 26/3/2009

“Pobre no es qui no tiene dinero
Pobre es qui no tiene sueno”

Per leggere i precedenti racconti clicca qui

i gestori del blog non rispondono per quanto scritto in articoli che non portino la loro firma.

15 commenti:

fra ha detto...

Grazie di cuore per averci regalato queste bellissime emozioni. Sei un grande!!

Niccolò ha detto...

Veramente bello, e toccante.

Anonimo ha detto...

Non é vero quello stai dicendo, errore grave di Storia e di Geografia.
"ARTICOLO" teleguidato. Roba vecchia.
Strumento di disinformazioni?

Yassine Belkassem ha detto...

Prima di tutto mi chiedo chi è l'autore della missione e del racconto, si tratta di un anonimo? Comunque vorrei, olimpicamente, dire quanto segue:

Nella sua missione in Algeria, e nel suo racconto sarebbe molto importante di verificare perché la popolazione nelle tendopoli a Tindouf non sono mai censite malgrado gli appelli dell'ONU, l'UE e ONG internazionali.
Sarebbe molto utile anche per lei, di verificare l'integrazione (residenza, lavoro, scuola...) nella società locale algerina.
Sarebbe molto utile per noi nella riva Nord del mediterraneo di verificare il rispetto dei diritti umani a Tindouf.
Sarebbe molto utile di verificare se gli aiuti umanitari arrivino alla destinazione o si dirottino verso i mercanti di controbando fuori Tindouf e poi alle tasche dei leader del Polisario.
Sarebbe molto utile di vedere anche l'altro lato del muro della difesa marocchino, e di vedere il radicamento della popolazione nella vita locale e nazionale, e vorrei segnalare che l'affluenza nelle elezioni politiche e amministrative nel Sahara era 70 per cento, questa è la risposta alla minoranza separatista (5 %) creata armata sostenuta e teleguidata dall'Algeria.
Infine, sarebbe molto equo ed equilibrato di sentire l'altra posizione, quella marocchina.

Grazie.

Yassine

sabinamente ha detto...

Con l'inserimento di questo racconto, questo blog, di carattere prettamente locale, ha solo voluto aprire un piccola finestra sul mondo.

Abbiamo pubblicato quanto speditoci senza alcun fine di tipo politico e propagandistico.

Credevamo che ciò che venisse maggiormente alla luce fossero i contenuti prosaici dello scritto.

Se esso può aver offeso qualcuno, ce ne scusiamo profondamente, ma volgiamo ribadire la sua essenze di Racconto di un esperienza. Va da se che esso si prefigura necessariamente come una interpretazione della questione in esame e assolutamente non come VERITA ASSOLUTA.

Ospitare il suo scritto, nobilita il nostro blog Sig. Belkassem, ribadendole come il fine della nostra rubrica sia solo un racconto di viaggi, attraverso mail che ci giungono dai nostri lettori.

Ci scusiamo se abbiamo magari considerato in modo non sufficiente l'aspetto politico che questo racconto poteva contenere.

A totale disposizione di ulteiori chiarimenti.

staff

Anonimo ha detto...

Quanta supponenza.
Quand'è che cresceranno questi crisantemi.

Unknown ha detto...

ma è rivolto alla nostra nota???

Unknown ha detto...

Delle volte rimaniamo davvero basiti. Una spiegazione doverosa data al Sig Yassine Belkassem, che è uno dei massimi esponenti della comunità marochhina in Italia, non può essere commentata con:
Quanta supponenza.
Quand'è che cresceranno questi crisantemi.

Di cattivo gusto davvero usare poi il crisantemo, nel rivolgersi a dei ragazzi, davvero di cattivo gusto.

Carlo Tacconelli ha detto...

Salve a tutti, sono Carlo Tacconelli, l'autore della missione e del racconto.
Ringrazio i ragazzi del blog Sabinamente per avermi concesso questo spazio, libero, per condividere emozioni e pensieri senza alcun tipo di vincolo. Ciò che fa parte di un racconto, di un diario, sono soltanto delle immagini che passano davanti agli occhi e rimangono impresse per sempre nella memoria. Non c'è nessuna distorsione cognitiva nè alterazione di ciò che si è presentato ai miei occhi.

Rispondendo al commento del Sig. Belkassem, sono d'accordo con lui che sarebbe giusto dare voce anche all'altra posizione, quella marocchina, ma purtroppo io non ho avuto modo di andare dall'altro lato del muro di sabbia per discutere. Soprattutto perchè un muro di sabbia di 4000 km, continuamente sorvegliato e circondato di mine antiuomo non mi sembra essere un invito al dialogo fra le parti. Inoltre sappiamo sia io che lei il perchè il referendum e tanto meno il censimento non si sono mai svolti, perchè ovviamente il Marocco rivendicando tutto il territorio saharawi non concede libertà di espressione ai propri prigionieri politici. Basta ripercorrere le vicende storiche (che non sono opinabili), per capire che l'invasione marocchina è stata frutto di una ostinata ed ottusa manipolazione politica per occupare dei territori ricchi e ospitali. Alla luce di tante nefandezze perpetrate nel passato appare un pò vigliacco deviare il discorso su temi quali la corruzione, contrabbando o l'affluenza nelle elezioni politiche. Che sono temi secondari e di poco rilievo, conseguenti al fatto che a causa del Marocco i Saharawi sono costretti a vivere nel deserto più arido. A questo punto credo che non sia opportuno strumentalizzare, parlando in sterile politichese,un popolo a cui non è stato lasciato nemmeno il diritto di abitare una terra, un popolo in esilio, un popolo che, alla luce dei recenti accordi commerciali tra Marocco e Spagna (gasdotti del Mediterraneo, ne sa qualcosa Sig.Belkassem), sta perdendo anche il riconoscimento degli stati dell'unione europea, ormai troppo intenti a riconoscere i diritti di un popolo soltanto in base alle sue capacità economiche.

Sarebbe molto utile che il Marocco smettesse di fare il forte con i deboli e il debole con i forti.

A vostra disposizione
Carlo

Niccolò ha detto...

Riguardo il prologo, vorrei fare una precisazione e dire che sì, forse proprio dove la gente sta peggio, proprio dove il ritmo della vita è lento e si può pensare senza lo stress dell'orologio, allora si ha il tempo e l'occasione per meravigliarsi della bellezza della natura e capire che esiste qualcos'altro rispetto a quello che c'è qui su questo mondo. Che poi le prime domande che uno si sente dire sul taxi siano queste, la prossima volta allora cambia tassista! :-)
La fede di quell'uomo è molto semplice e forse banale, visto che il mondo non si divide tra cattolici buoni e non cattolici cattivi.
Ma per chi crede, non è solo questo il mondo che conta; uno sguardo più trascendente cataloga in modo assai diverso le cose e le persone di questo mondo. Per chi crede, non è la tecnologia a renderci migliori, o il progresso. Quello che ci rende uomini migliori, come sempre su questo mondo è stato e sempre sarà, sono i valori che si hanno e come questi si realizzano verso gli altri, sono la tendenza al bene, al buono, al vero. Con lo sguardo verso il cielo, impegnati su questa terra.

Per il resto, il racconto è eccezionale, e permette di avere uno sguardo più ampio su realtà molto distanti da noi.

c.g. ha detto...

Ci sarebbe da discutere per mesi su questo vero e proprio atto fideista.
Quanta ipocrisia, quanta falsità, quanti inganni verso quella... gente che non ha neanche un centilitro d'acqua cui dissetarsi.
E' bello predicare nel fresco di una stanza climatizzata con accanto una bottiglia di cedrata, è anche bello scrivere poesie con l'immaginazione di un ambiente non alla portata di tutti gli umani quale è il deserto e questo anche minato da altrettanti fideisti non di un altro dio ma di altro profeta.
Si abbia il pudore di tacere.

c.g. ha detto...

Ci sarebbe da discutere per mesi su questo vero e proprio atto fideista.
Quanta ipocrisia, quanta falsità, quanti inganni verso quella... gente che non ha neanche un centilitro d'acqua cui dissetarsi.
E' bello predicare nel fresco di una stanza climatizzata con accanto una bottiglia di cedrata, è anche bello scrivere poesie con l'immaginazione di un ambiente non alla portata di tutti gli umani quale è il deserto e questo anche minato da altrettanti fideisti non di un altro dio ma di altro profeta.
Si abbia il pudore di tacere.

Yassine Belkassem ha detto...

Prima di tutto mi chiedo chi è l'autore della missione e del racconto, si tratta di un anonimo? Comunque vorrei, olimpicamente, dire quanto segue:

Nella sua missione in Algeria, e nel suo racconto sarebbe molto importante di verificare perché la popolazione nelle tendopoli a Tindouf non sono mai censite malgrado gli appelli dell'ONU, l'UE e ONG internazionali.
Sarebbe molto utile anche per lei, di verificare l'integrazione (residenza, lavoro, scuola...) nella società locale algerina.
Sarebbe molto utile per noi nella riva Nord del mediterraneo di verificare il rispetto dei diritti umani a Tindouf.
Sarebbe molto utile di verificare se gli aiuti umanitari arrivino alla destinazione o si dirottino verso i mercanti di controbando fuori Tindouf e poi alle tasche dei leader del Polisario.
Sarebbe molto utile di vedere anche l'altro lato del muro della difesa marocchino, e di vedere il radicamento della popolazione nella vita locale e nazionale, e vorrei segnalare che l'affluenza nelle elezioni politiche e amministrative nel Sahara era 70 per cento, questa è la risposta alla minoranza separatista (5 %) creata armata sostenuta e teleguidata dall'Algeria.
Infine, sarebbe molto equo ed equilibrato di sentire l'altra posizione, quella marocchina.

Grazie.

Yassine

Niccolò ha detto...

Riguardo il prologo, vorrei fare una precisazione e dire che sì, forse proprio dove la gente sta peggio, proprio dove il ritmo della vita è lento e si può pensare senza lo stress dell'orologio, allora si ha il tempo e l'occasione per meravigliarsi della bellezza della natura e capire che esiste qualcos'altro rispetto a quello che c'è qui su questo mondo. Che poi le prime domande che uno si sente dire sul taxi siano queste, la prossima volta allora cambia tassista! :-)
La fede di quell'uomo è molto semplice e forse banale, visto che il mondo non si divide tra cattolici buoni e non cattolici cattivi.
Ma per chi crede, non è solo questo il mondo che conta; uno sguardo più trascendente cataloga in modo assai diverso le cose e le persone di questo mondo. Per chi crede, non è la tecnologia a renderci migliori, o il progresso. Quello che ci rende uomini migliori, come sempre su questo mondo è stato e sempre sarà, sono i valori che si hanno e come questi si realizzano verso gli altri, sono la tendenza al bene, al buono, al vero. Con lo sguardo verso il cielo, impegnati su questa terra.

Per il resto, il racconto è eccezionale, e permette di avere uno sguardo più ampio su realtà molto distanti da noi.

sabinamente.blogspot.com ha detto...

i commenti che leggete fino a questo punto non sono riferiti all'articolo qui postato, ma ad un racconto precedentemente pubblicato e dipsonibile all'url http://sabinamente.blogspot.com/2007/06/precedenti-racconti.html

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