martedì 12 giugno 2007

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Qui potete trovare tutti i racconti pubblicati nella rubrica "On The Road"

“Per tutti quelli che hanno gli occhi ed un cuore che non basta agli occhi…”

Storia di un viaggio nel deserto del Sahara

E’ da quando ero piccolo che sento dire la frase: “Fa un caldo che pare il deserto del Sahara…”
Beh, non avevo mai dato troppa importanza a questo modo di dire, essendo entrato nel linguaggio comune, finchè un giorno, aggirandomi per le aule dell’università, ho sentito parlare di un corso sulle Tecnologie per l’Autonomia e l’Ambiente. Essendo la curiosità uno dei difetti peggiori che affliggono l’umanità, mi sono subito interessato a queste lezioni. Il corso mostrava alcuni interventi di cooperazione internazionale e di sviluppo sostenibile svolti da un centro interuniversitario dell’università della Sapienza in diversi paesi del mondo, alcuni già realizzati altri in fase di realizzazione, in Chad, in Nicaragua, in Indonesia, in Chiapas, nel Sahara.
E’ proprio in quest’ultima zona che si è focalizzata la mia attenzione, per questo vi faccio un breve resoconto delle vicende storiche di questo paese:
Lo Stato del Sahara Occidentale ( di cui ho da poco scoperto l’esistenza, neanche i medici dell’ufficio vaccini internazionali lo conoscevano…) è stata una colonia spagnola fino al 1975, anno in cui la dittatura franchista si ritira, lasciando via libera all’invasione marocchina. Tale invasione militare ha provocato la fuga di parte della popolazione residente verso il deserto dell’Algeria, riducendo la restante popolazione in schiavitù.
Si calcola che siano 250.000 i Saharawi (gente del deserto, abitanti del Sahara Occidentale) residenti in campi profughi nell'estremo Sud-Ovest dell'Algeria, nella zona di Tindouf. Di loro si parla poco, come di tutti i popoli “dimenticati”, le cui rivendicazioni vanno a turbare interessi consolidati ed equilibri internazionali delicati. I rifugiati Saharawi sono i sopravvissuti al grande esodo: interminabili marce nel deserto, inseguiti dall'aviazione marocchina dal 1975.
30 anni di vita nella zona considerata tra le più invivibili del nostro pianeta. Ora sono già avviate da un po di anni tutte le pratiche internazionali volte all’assistenza nei paesi in casi di emergenza, con l’avvio di progetti recupero di distribuzione alimentare e di aiuti umanitari.
Mi sono subito appassionato a questa vicenda tanto che mi sono ritrovato a partecipare ad un progetto di Ingegneria Sostenibile con l’Università, che detta così sembra chissà che, però , detta in soldoni,si tratta di scavare dei pozzi al fine di irrigare degli orti all’interno degli accampamenti profughi Saharawi; la parte ingegneristica sta nel fatto che la pompa utilizzata per estrarre l’acqua dal pozzo viene alimentata da un pannello solare! E vi assicuro che di sole laggiù ce n’è abbastanza!!
E poi mi sono sempre piaciute le questioni umanitarie (se mi chiederete “perché lo fai”, non aspettatevi risposte esaltanti. Semplicemente non penso di essere un eroe né una persona particolare. Mi piace, mi appassiona e il contatto con gente meno fortunata mi offre elementi di arricchimento che purtroppo non sempre riesco a valorizzare. E poi, come disse John Hopkins in “A proposito di Schimdt” … nella vita bisogna essere utili a qualcosa o qualcuno…)

Con questo carico di emozioni sono partito alla volta di Tindouf, Algeria, il 7 settembre 2007.
Il viaggio, sebbene non troppo lungo, si è dimostrato gia impegnativo per il ferreo regime poliziesco presente in Algeria a causa del terrorismo interno, cis ono stati un po’ di attentati ad agosto; insomma, dopo mille controlli e diversi cambi di aereo sono riuscito ad arrivare nella capitale Saharawi dopo una giornata di aeroporti.
L’impatto è stato subito fortissimo, panorama ovviamente desertico, solo sabbia e pietre ovunque, 43-45 gradi fissi tutto il giorno e 35 di notte (in effetti il 7 settembre è ancora estate…). Il villaggio principale (la “capitale”) è fatto di case costruite con mattoni di sabbia e i tetti sono solo delle lastre di alluminio appoggiate; è chiaro che nel deserto non piove praticamente mai, ma ogni 2 anni capita una tempesta di sabbia e pioggia e in quel caso le abitazioni si sciolgono e bisogna ricostruire tutto da capo, l’ultima volta è successo a Febbraio 2007, infatti i lavori di ricostruzione sono ancora in corso. Gli altri accampamenti secondari sono costituiti per la maggior parte da tende familiari e recinti per le capre.
Lì il territorio è davvero ostile, perché a causa della temperatura alta non c’è minimamente vegetazione, e gli animali sopravvivono come possono: le capre mangiano cartoni, buste di plastica, addirittura si ciucciano l’acido che esce dalle batterie abbandonate delle automobili….
I Saharawi sono un popolo di antiche tradizioni di pastori nomadi, infatti capita spesso di trovare nel bel mezzo del deserto allevatori di cammelli e capre che portano a pascolare i capi di bestiame verso Sud, dove il clima è piu umido e la vegetazione è simile alla savana.

E’ davvero una situazione anacronistica, vedere i bambini che giocano a calcetto scalzi sulle pietre è davvero toccante….
I bambini sono eccezionali, hanno degli occhioni pieni di speranza per il futuro e trasmettono voglia di vivere.
Nei campi Saharawi sono presenti già diverse associazioni umanitarie europee, nonchè le nazioni unite, che lavorano per l’assistenzialismo, perciò la popolazione locale si è abituata a incontrare i bianchi in giro per i villaggi; e proprio i bambini sono l’anima di questa popolazione, appena vedono un europeo per strada lo salutano, ci giocano, sono contenti e affettuosi; un giorno stavo visitando una scuola per disabili mentali , a un certo punto mi sento chiamare da un bimbo, che si avvicina, vuole parlare con me, vuole sapere da dove vengo, che faccio li, mi ha detto che grazie ad una famiglia spagnola è stato 1 mese in vacanza a Barcellona e che ne era rimasto innamorato; mi ha chiesto se potevo aiutarlo, e allora gli ho detto “ cosa posso fare per te? Hai fame, sete, vuoi soldi o vestiti…? “ e lui mi ha risposto, in uno spagnolo arabeggiante “ Niente di tutto cio.Se puoi, la prossima volta che torni qui, portami una caramella dalla Spagna”… beh, adesso è difficile rendere l’idea di quello che si prova, ma vi assicuro che guardando quel bimbo, scalzo nella polvere, che mi guardava negli occhi e mi implorava solo per una caramella mi veniva da strapparmi il cuore, regalarglielo e dirgli “ Tienilo tu , tanto dalle parti nostre non lo usiamo”.

I Saharawi sono una popolazione molto ospitale, perlomeno con i bianchi, forse perché hanno capito che noi andiamo lì solo per aiutarli e non per approfittarne come succede in altre zone dell’Africa sfruttare dagli Europei e dagli Americani. Durante i miei sopralluoghi nei villaggi per parlare con la gente e spiegare il progetto ogni volta c’era qualche famiglia che mi invitava a mangiare nella sua tenda, a bere un tradizionale te ( un detto dice: esistono 3 tipi di te, uno amaro come la vita, uno dolce come l’amore e uno soave come la morte!!), a rimanere a dormire da loro. Per non parlare dei regali che mi hanno fatto: turbanti, tonache, melfe, addirittura mi hanno dato dei vestiti da donna per mia madre!
A proposito di mangiare, grazie agli aiuti umanitari laggiù il cibo non è cosi scadente, si mangiano fagioli, lenticchie, uova, patate, cipolle, pasta (rigorosamente scotta e senza sale, ma come si dice è sempre meglio di un calcio nei cosiddetti…), cous-cous, carne di capra e carne di cammello! Si, cammello, all’inizio anche io ero un po scettico, e anche un pò dispiaciuto all’idea dell’uccisione di un animale cosi docile, però da buon carnivoro ho subito apprezzato gli spiedini di cammello e lo spezzatino.

Per quanto riguarda invece la sistemazione, chiaramente se doveste decidere di andare nel Sahara non vi aspettate hotel a 5 stelle…. Io inizialmente alloggiavo nell’accampamento dei volontari europei, in camerate da 4 persone, ovviamente in camere fatte di mattoni di sabbia e un pò di cemento, poi mi sono spostato in altri villaggi dove non c’erano neanche i letti ma solo dei materassi pieni di polvere buttati a terra! E comunque con tutto quel caldo la notte era impossibile dormire in camera, infatti quasi tutte le sere andavo a dormire fuori, sulle dune , buttando un materasso a terra e buonanotte; si, mi sono dovuto abituare anche a dormire con scarafaggi e scorpioni che passeggiavano sul mio corpo (addirittura una mattina sono stato svegliato da un asino che voleva mangiare la mia coperta…), ma vi giuro che dormire all’aperto nel Sahara vuol dire stare sotto un cielo stupendo, fantastico, si vedevano tutte le stelle, per la prima volta nella mia vita sono riuscito a vedere la Via Lattea, è uno spettacolo immenso, praticamente le stelle di notte mi facevano da coperta!!! Un cielo cosi non l’avevo mai neanche immaginato, è una sensazione incomunicabile a parole.

Detta cosi, sembra che sia stata una passeggiata di salute, un posto dove la vita scorre tranquilla e imperturbata. E invece no, ci sono state diverse complicazioni, come quella volta in cui si è rotta la jeep in pieno deserto, alle 11 di mattina, a 200 km dal primo villaggio, PANICO!!!!!, E allora che fai????? Beh, semplice, i due saharawi che erano con me sono scesi dalla macchina e si sono messi tranquillamente a fare il tè; io che ero leggermente preoccupato gli ho chiesto cosa avessero intenzione di fare, “Aspettiamo i soccorsi o moriremo nel deserto, se Allah vuole” è stata la risposta. Non fa una piega.Capirete che una persona può essere coraggiosa quanto vuoi, ma essere messi di fronte alla propria fine e aspettarla non è proprio una facile impresa; ciononostante non mi sono demoralizzato e per ingannare il tempo ( e anche lo spazio, visto che non si vedeva nessuno all’orizzonte…) mi sono messo a fare una scritta con le pietre, una specie di epigrafe tombale, STRADA DI CARLO, intitolandomi quel percorso nel caso in cui fossi morto.
Però sentivo che non potevo farlo, non poteva finire così, non potevo chiudere la mia vita cosi prematuramente in quella maniera, ci pensate che figuraccia?? Io già immaginavo i miei amici del gruppo musicale di Roma che dicevano “Ci dispiace, il concerto previsto per sabato prossimo è stato annullato perché il nostro tastierista si è perso nel Deserto del Sahara”, ci pensate???
E infatti mi sono fatto coraggio e sono stato premiato, infatti dopo 2 (due) giorni fermi, tra sabbia e pietre, col caldo del giorno e il freddo della notte, mangiando lucertoloni (!!!!) e bevendo latte di cammello (!!!!!!!!!) è passato per caso un vecchio signore con una camionetta piena di capre che ci ha dato un passaggio al villaggio più vicino per riparare la nostra jeep. Dopo 4 giorni passati a vagare in villaggi in territorio militare, (tra l’altro sono passato a 1km dalla zona delle mine antiuomo senza saperlo), finalmente sono tornato nel mio alloggio nella “capitale” che in quel momento mi è sembrato il posto più comfortevole del mondo!!!!
Ma quella notte nel deserto non la dimenticherò mai: eravamo riusciti a rimediare un po’ di legna da un albero che si trovava a qualche km dalla nostra jeep , e avevamo fatto un bel falò ( la notte dopo le tre la temperatura scende a 10-15 gradi); sotto quel cielo accogliente Auallah, il ragazzo Saharawi che mi aveva fatto da autista, inizia a raccontarmi della sua vita, di quando viveva nei suoi territori, beatamente e indisturbato; poi all’improvviso arrivò l’invasione marocchina e lui dovette scappare, alcuni suoi familiari rimasero uccisi nelle sparatorie, lui si salvò e riusci a fuggire nei territori dove oggi sono i campi profughi; mi ha raccontato di quando è dovuto andare in guerra, a 19 anni, e di quando è stato colpito da una scheggia di una mina; aveva un bozzo in testa grande quanto un limone….
Anche le il cielo e le stelle, curiose, si stavano appassionando a questo racconto, la luna era bassa, sembrava fosse scesa per ascoltare le parole di Auallah… E lui continuava a raccontare la sua voglia di libertà, di come non è possibile esiliare un popolo per 30 anni nel deserto, di come non è possibile rinchiudere le idee in una galera, e mentre ricordava la sua terra e i suoi amici uccisi o fatti prigionieri cominciò a piangere…
Questi discorsi li avevo già sentiti in Italia da mio nonno, che mi raccontava sempre la sua esperienza militare nella campagna di Libia del ’41, di quando arrivò la chiamata alle armi, di quando anche lui fu fatto prigioniero ma riusci a salvarsi, però quei discorsi mi sono sempre sembrati lontani, passati, distanti dalla realtà in cui viviamo adesso in Italia; mentre sentire la testimonianza di una guerra che è stata soltanto “sospesa” nel 1991, , e capire che questa volta si trattava di una lotta per la libertà, nata da una esigenza reale di una popolazione (nulla a che vedere con le nostre guerre mondiali), percepire davvero cosa può spingere un uomo ad uccidere un suo fratello è stato davvero angosciante e straziante.

La frustrazione di essere cacciati da casa vostra e di essere costretti a vivere al limite delle possibilità umane non la auguro nemmeno al mio peggior nemico.


In conclusione, non vorrei dilungarmi sull’aspetto tecnico della mia missione, mi limito a dire soltanto che il progetto sta procedendo bene, stiamo ricevendo dei fondi anche per altri progetti di cooperazione, e probabilmente a febbraio 2008 tornerò nei campi saharawi, speriamo!!!
Questa esperienza non è stata solo un’occasione di crescita a livello tecnico, ma soprattutto un momento di crescita interiore; stare a contatto con gente che vive in condizioni al limite della sopravvivenza, parlare con persone che vivono in esilio, toccare con mano quali sono le conseguenze di una guerra, adattarsi a condizioni di vita molto diverse da quelle abituali, conoscere diverse culture, diverse società, è ovviamente un motore che mi ha dato la voglia di continuare a collaborare nella cooperazione internazionale.



Attualmente i Saharawi sono confinati nel deserto dell’Algeria e il loro ritorno nel Sahara Occidentale, dove il clima è più vivibile e la natura offre maggiori risorse, è reso impossibile a causa di un muro di 4000 km fatto erigere dal governo marocchino; muro perennemente sorvegliato e dotato di sofisticati sistemi di rilevazione. Questo muro separa in due, da nord a sud, il Sahara Occidentale; la parte che da sul mare, per le coste pescose e per i territori ricchi di fosfati, è chiaramente quella occupata dal Marocco. Le nazioni unite nel 1991 hanno indetto una missione chiamata MINURSO ( Missione delle nazioni unite per il referendum nel sahara occidentale) per permettere alla popolazione di sancire la propria autodeterminazione e la propria indipendenza, ma a causa dell’ostruzionismo marocchino questo referendum ancora non è stato mai fatto e il clima è di tensione.
Ovviamente ci sono altri legami politici, quali accordi commerciali, per cui diverse nazioni europee non intervengono, ma non è mio compito discuterne e poi sarebbe troppo noioso…


Esistono diverse iniziative che nascono dall’Italia per il Sahara, la più famosa è la Saharamarathon, una maratona di 42 km interamente nel deserto, dove parte dei soldi dell’iscrizione viene devoluta al governo saharawi oppure diversi pacchetti viaggi , che prevedono soggiorni nel deserto più sperduto, passeggiate con i cammelli, incontri con i pastori nomadi e tante altre cose caratteristiche. E’ un modo per incentivare una sorta di turismo alternativo, diverso dalla solita routine spiaggia-albergo-discoteca, che potrebbe essere interessante e soprattutto è un modo per dare un pò di visibilità all’area del Sahara Occidentale.


Se volete sapere qualcosa in più sui saharawi, vedere qualche video o per avere qualche info
(che non trovate su Google…:!) andate:
- sul mio blog http://lennonforever.spaces.live.com
- sul sito del Centro Interuniversitario di Ricerca per lo Sviluppo Sostenibile: www.cirps.it
o mandatemi una email: carlotacconelli@msn.com


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